Ogni anno 8 milioni di persone muoiono per la mancanza di acqua. L’ultima siccità ha colpito le popolazioni del Corno d’Africa, le prossime potrebbero innescare guerre sanguinose nel Sahel.
Nel frattempo gli scienziati lanciano l’allarme:
fiumi e laghi si stanno prosciugando
La siccità che ha colpito le regioni rurali del Niger alla fine del 2004 ha costretto madri e figli a fuggire dal villaggio di Tubukut, dove le piantagioni sopravvissute alla mancanza di piogge sono state distrutte e divorate da sciami di migliaia di cavallette. E dove i pozzi d’acqua marrone e fetida hanno causato un numero insolitamente alto di morti per dissenteria tra i bambini sotto i cinque anni.
Nel 2005, un problema simile a quello avvenuto pochi mesi prima in Niger si è verificato in Malawi e più recentemente in Kenya e Somalia, dove la siccità ha causato gravi crisi alimentari tra la popolazione rurale, allarmando le agenzie e le organizzazioni umanitarie. E nessuno menziona le scarse precipitazioni che negli ultimi mesi hanno colpito le comunità pastorali di Gibuti, dove si parla di numerosi capi di bestiame morti e di centinaia di persone che hanno cominciato ad affollare le periferie della capitale.
Previsioni catastrofiche
Oggi, a soli sette anni dal fatidico 2015, data prefissata dalle Nazioni Unite per raggiungere gli Obiettivi del Millennio e sconfiggere la povertà, sul continente africano resta l’ombra di un problema che, giorno dopo giorno, non accenna affatto a migliorare: l’acqua.
Riscaldamento globale, cambiamenti climatici, impennate demografiche, guerre, speculazione, fallimento delle politiche dello sviluppo e impasse legislative transnazionali sono solo alcuni dei motivi che non fanno presagire nulla di buono. Secondo il centro di ricerca Global Water Policy Project, organizzazione che promuove un uso sostenibile dell’oro blu nel mondo, oggi circa il 36% della popolazione africana non ha accesso ad acqua potabile.
Una percentuale già molto alta di per sé, ma che stando al Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite (Undp), potrebbe peggiorare già per la prossima generazione: entro il 2025 un africano su due vivrà in Paesi con problemi di riduzione (meno di 1500 m3 di acqua all’anno) o di scarsità (meno di 1000 m3 cubi all’anno) d’acqua. Questo fenomeno esiste già in quattordici Paesi africani, ai quali se ne dovrebbero aggiungere nove nei prossimi due decenni.
Sempre più caldo
Il consumo d’acqua medio di un’abitazione africana è passato dai 30 litri giornalieri di quarant’anni fa, ai 25 litri di oggi. Cioè quasi trenta volte meno di quanto consuma una famiglia negli Usa. E potrebbe diminuire ulteriormente, se la lunga serie di fattori negativi che sembra essersi scatenata contro l’utilizzo dell’acqua da parte delle popolazioni africane dovesse continuare.
Primo fra tutti c’è un problema di clima.
Il Ciad prosciugato
Dalla fine degli anni ’60 il lago Ciad, le cui acque sono condivise da Nigeria, Camerun, Ciad e Niger, sta vivendo uno dei periodi più drammatici della sua storia. In quasi quarant’anni le scarse precipitazioni hanno fatto sì che il bacino sul quale questi Paesi si affacciano si restringesse del 95%, ossia di ben 25mila chilometri quadrati.
Un disastro simile a quello che sta avvenendo in Asia Centrale alle acque del lago d’Aral, tra Kazakistan e Uzbekistan, anche se laggiù la responsabilità dell’uomo è molto più grande.
«Per risolvere il problema potremmo deviare l’acqua dal fiume Congo, ma si tratterebbe di un’opera colossale che richiederebbe moltissimo tempo e soldi. Per lavorarci avremmo bisogno di più dati e numeri che nessuno calcola. Questo lago rappresenta oggi uno dei grandi fallimenti delle nostre politiche sull’acqua».
Una diga dannata
Alcune centinaia di chilometri più a sud-est, nel lago Vittoria, due dati inquietanti sembrano preoccupare non poco gli esperti e le comunità locali. Il primo lo ha fornito Daniel Kull, già esperto di risorse idriche per le Nazioni Unite e ora ricercatore presso la lobby ambientalista International Rivers Network.
Scrive che le acque dell’“occhio blu” del continente africano si sarebbero abbassate di quasi mezzo metro più del previsto, a causa della presenza della nuova diga di Owen Falls, costruita da ingegneri inglesi, che prevede il passaggio di una quantità d’acqua compresa tra i 300 e i 1700 metri cubi al secondo. Ma nel 2002 è stato ultimato il complesso idroelettrico di Kira, che ha causato un’altra fuoriuscita, nonostante il governo ugandese attribuisca il calo delle acque del lago alla siccità. Secondo Kull, tuttavia, la presenza della diga ha almeno il 50% di responsabilità.
L’abbassamento delle acque del fiume ha causato problemi alle centrali idroelettriche e a molte case nella capitale Kampala è stata tagliata l’elettricità per periodi più lunghi del solito (fino a 5 ore al giorno). Come se non bastasse, il lago Vittoria è diventato la toilette dell’Africa Orientale, con un alto tasso di inquinamento, causa della diffusione di malattie che mettono a repentaglio la salute delle popolazioni locali.
Le mani sul Nilo
Il problema è che il lago Vittoria dà acqua al Nilo – uno dei maggiori corsi fluviali del mondo – da cui dipendono 160 milioni di persone. Sono ormai decenni che si dibatte su un utilizzo più equo delle acque di questo fiume il cui bacino interessa un numero impressionante di Paesi: Burundi, Ruanda, Uganda, Tanzania, Repubblica Democratica del Congo, Kenya, Etiopia, Sudan ed Egitto.
Ma è davvero ipotizzabile uno scenario così apocalittico in Africa? Per certi versi, crisi diplomatiche e conflitti legati all’oro blu stanno già avvenendo, anche se su scala minore.
Guerre per l’acqua
Basta guardare ai fatti di cronaca che nel 2005 si sono verificati nella Rift Valley, in Kenya: è qui che in gennaio gli scontri tra appartenenti alle popolazioni masai e kikuyu hanno causato decine di morti nel distretto di Narok. Oggetto della contesa il fiume Ewaso Kedong, che alcuni Kikuyu avrebbero deviato per irrigare i propri campi.
Una disputa legata anche a questioni territoriali: negli anni che hanno seguito l’indipendenza del Kenya, i Masai sono stati relegati in una piccola parte di quella che una volta era la loro vasta terra. Ma i corsi d’acqua sono stati anche fonti di scaramucce diplomatiche. Come il già citato Nilo, ma anche una piccola e insignificante isoletta, Sedudu/ Kasili, un lembo di terra perso tra le correnti del fiume Chobe, tra Botswana e Namibia. Entrambi i Paesi ne hanno rivendicato la sovranità e si sono addirittura appellati al tribunale dell’Aia nel 1996, dopo avere sfiorato lo scontro armato. Solo al termine di lunghe consultazioni, la corte ha deciso che apparteneva al Botswana.
L’agonia del Niger
L’ipotesi di Boutros Ghali è avvalorata dal fatto che più dei due terzi dei 60 bacini nel continente sono divisi da più di un Paese, fornendo un elemento di contrasto e di divisione che potrebbe diventare reale con l’esplosione demografica. I nove Paesi attraversati dal fiume Niger, in Africa Occidentale, hanno firmato la cosiddetta Dichiarazione di Parigi, con la quale si impegnano a consultarsi a vicenda prima di dar vita a qualsiasi tipo di lavoro di infrastruttura che possa alterare il flusso del fiume. Ma dalle acque del Niger dipendono 100 milioni di persone, che entro il 2020 potrebbero raddoppiare. Cosa si farà, allora? La questione si complica quando ci si mette di mezzo l’inquinamento.
Ne sanno qualcosa i pescatori della regione del delta dello stesso fiume Niger, negli stati sudorientali della Nigeria, che da quasi 50 anni vedono la propria unica fonte di sostentamento avvelenata dai lavori di estrazione di petrolio delle multinazionali nella regione. D’altronde l’oro nero fa più gola dell’oro blu. Ma l’inquinamento del fiume e delle lagune nella zona (i cui danni irreparabili non sono mai stati risarciti alla popolazione locale) è uno dei motivi per cui alcuni gruppi estremisti hanno ingaggiato una vera e propria guerra contro il governo nigeriano.
La privatizzazione
Al di là di questi numerosi casi che delineano gli immensi problemi idrici del continente, per molti cittadini africani quella dell’acqua è una costante incertezza affrontata con una quotidiana rassegnazione. Tenere in casa una scorta d’acqua per sopperire a intere giornate con i rubinetti a secco è più un dovere che una scelta per gli abitanti delle capitali – da Monrovia a Niamey, da N’Djamena a Harare -, figurarsi nei centri abitati o nei villaggi, dove spesso occorre camminare chilometri con i secchi in testa per l’approvvigionamento giornaliero.
In altre parole non è corretto accusare sempre il clima e le società occidentali: la sete dell’Africa dipende anche dai politici locali. Che annegano nella corruzione e nel malgoverno.
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